Lo spunto di partenza di Vittorio Midoro è certamente interessante sia per il precedente che sinteticamente chiama in causa (il Progetto Geodinamica in risposta ai terremoti degli anni ’80), che per l’esplicita attenzione critica alla percezione sociale della pandemia, che coinvolge ovviamente il ruolo del giornalismo e della comunicazione. È certo, infatti, che un intervento sapientemente educativo avrebbe l’inestimabile vantaggio di allargare la rete sociale di quanti condividono l’idea che il sapere è un vaccino strategico per aumentare l’immunità sociale rispetto alla disinformazione; soprattutto, una cultura e una formazione fondate sui dati assicurano successi nella modificazione delle visioni della salute e della malattia, mettendo in campo giovani che saranno cittadini più competenti anche di fronte alle emergenze.
Ben venga dunque una analisi più avanzata del precedente post-terremoto, anche per esaminare una effettiva congruità tra il clima del post-sisma e la necessità della ricostruzione. È evidente tuttavia che una simmetria di fondo tra i due contesti è fuori discussione.
Colpisce peraltro nel post di Midoro l’assunto che l’informazione e la comunicazione non siano state all’altezza della situazione. Sta diventando un luogo comune soprattutto tra studiosi ed esperti, ma è una analisi abbreviata e, francamente, troppo prevedibile. Non tiene nel minimo conto le criticità del sistema informativo e dunque quali potevano essere le nostre attese rispetto al loro comportamento in una situazione oggettivamente complessa. Molti dati di ricerca e di sondaggio dicono infatti che in relazione agli standard dell’informazione italiana e al clamor fori imperante prima del Covid, la performance dell’informazione e della comunicazione ha segnato molti risultati positivi, sia in termini di far compagnia alle persone in difficoltà nella prova dell’emergenza (è la prima missione a cui i media debbono sottoporsi), che in termini di cambiamenti da parte dei pubblici. Qui bisogna capirci: se gli italiani hanno adottato stili più maturi di scelta tra le fonti, in buona misura contro il modello della disintermediazione dominante prima della pandemia, significa che in qualche misura anche l’offerta di messaggi è migliorata rispetto al tam tam delle narrazioni ipertensive dominanti nella stagione pre-Covid. E questo è successo anche tra i giovani che avremmo invece dovuto attenderci ‘incollati’ al bla bla cacofonico delle piattaforme social.
Molte ricerche dicono infatti che la gestione dell’aumento di comunicazione, fisiologica e attesa nei momenti di crisi, ha spostato i pubblici verso comportamenti più attenti e consapevoli sia nella selezione dei contenuti che negli stili di approvvigionamento delle notizie anche qui ispirate ad una maggior varietà, con il risultato di un importante segnale di ritorno all’informazione mediata e responsabile.
È stata dunque una provocazione tipicamente intellettualistica quella di Mario Monti, che ha invocato la necessità di una comunicazione «meno democratica», anche perché se un aspetto di maggiore forza istituzionale avrebbe certamente aiutato la comunicazione pubblica, resta la circostanza che il primo interfaccia critico in questa vicenda non sono i media, ma un esercizio muscolare di rivendicazione di ruolo da parte di un regionalismo che ha finito, al di là delle buone intenzioni, per disarticolare una policy all’altezza della sfida globale del Covid. Casomai è venuto il momento di pensare che una estrema frammentazione di fonti istituzionali dovrebbe trovare una cabina di regia autorevole e forte, che eviti la coriandolizzazione degli attori comunicativi più o meno improvvisati.
È certo tuttavia che l’idea di mobilitare la scuola quale centro – ramificato nei territori – di diffusione della scienza e della divulgazione è tutt’altro che peregrina. Lo dice la stessa circostanza che buona parte della società italiana ha a che fare con la scuola (studenti, docenti, personale e tutto l’indotto dei genitori e delle famiglie). Una qualunque strategia che punti su di essa per aumentare la resilienza collettiva e le conoscenze sociali, anche quelle indispensabili contro la disinformazione e le fake, si fonda sull’idea che la scuola apre per definizione al futuro e all’educazione alla cittadinanza, senza diventare mai uno strumento ideologico di parte. È indiscutibile dunque che le scuole possano essere un avamposto civile contro le conseguenze divisive della pandemia e soprattutto contro il rischio di aumento delle forme di povertà formativa. Ma un compito di questo genere spetta anche alle Università che potrebbero porsi anch’esse (anche qui le esperienze virtuose non sono mancate) come centri irradiatori di divulgazione e di lotta contro ogni forma di populismo culturale e comunicativo.
Ancora una volta il problema è di logistica, di tempi, competenze e proposte innovative che siano sostenibili per il sistema scolastico e accademico, ma in questo caso la congruenza e potenzialità di un progetto strutturato e che si fondi sull’analisi dei benefici dell’esperienza citata in relazione ai terremoti prima del Belice e poi dell’Irpinia potrebbe rafforzare l’operatività della proposta.
Ben venga dunque un invito tendente ad aumentare il peso formativo della scuola e dell’Università in momenti in cui solo investimenti in conoscenza sociale utile possono davvero influenzare positivamente le reazioni dei cittadini, oggettivamente favorendo processi di resilienza e recupero della fiducia comunitaria.
A ben vedere, si tratta di una proposta che renderebbe più forte anche la progettazione rapida ed efficace di una strategia nazionale per la ‘comunicazione di emergenza’, favorendo dunque un clima proattivo nei confronti dei provvedimenti di rinascita del paese che chiamiamo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Ma forse è proprio l’epigrafe scelta da Midoro ad evocare un clima di collettivismo forzoso di cui il termine ‘massa’ più o meno volontariamente si carica. Occorre pensare piuttosto a una educazione all’emergenza aperta a tutti, forse anche rompendo i perimetri delle età e delle generazioni e facendo diventare Scuola e Università il motore dinamico di una riscossa civile, ciò che significa fondata convintamente sulla conoscenza e sulla cultura.
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