Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson chiese al Congresso di approvare una dichiarazione di guerra contro la Germania imperiale, proclamando che lo scopo degli Stati Uniti era quello di rendere il mondo «sicuro per la democrazia». La spinta ideale verso l’interventismo democratico proveniva da diversi depositi intellettuali dell’ex-rettore di Princeton, tra cui quello contenente il pensiero di Giuseppe Mazzini. Wilson invocò una grande campagna per portare la democrazia in tutti gli angoli della terra, convinto che il mondo fosse maturo sia per beneficiare dell’esperienza di successo degli Stati Uniti sia per convergere verso standard comuni che riguardavano anche i regimi politici. Superati l’ostilità e il rigetto di cui il progetto di Wilson fu vittima sia negli Stati Uniti sia in Europa, l’ordine internazionale liberale è stato riformulato e rilanciato da F. D. Roosevelt dopo il 1945. Gradualmente, gli Stati Uniti lo hanno sempre più saldato a un sistema di sicurezza collettiva e istituzioni economiche al fine di adattarlo all’evoluzione della Guerra fredda e al processo di decolonizzazione.
Con l’attenuazione della logica bipolare, abbiamo assistito a una spinta verso la globalizzazione dell’ordine internazionale liberale e alla riapertura del dibattitto sul dovere degli Stati di promuovere e sostenere la democrazia nel mondo. In anni recenti, tuttavia, la discussione sull’internazionalismo liberale è apparsa ripiegarsi su una visione molto diversa dell’intento originario di Wilson. Resta ancora valida l’idea per cui se gli Stati Uniti e le altre democrazie consolidate intendono proteggere le loro istituzioni e tradizioni democratiche, allora devono saper intervenire nel contesto internazionale in cui vivono. Tuttavia, nelle parole di John Ikenberry, piuttosto che promuovere la democrazia ovunque, i sostenitori dell’internazionalismo liberale si trovano a dibattere oggi su questioni più basilari, ad esempio: «su quali basi geopolitiche e intellettuali l’internazionalismo liberale può piantare la sua bandiera?».
Dal secondo dopoguerra, la politica estera dell’Italia ha aderito ai nuovi principi dell’internazionalismo liberale. I tre anelli della politica estera nazionale – atlantismo, europeismo, e partecipazione attiva alle Nazioni Unite – sono stati ispirati dall’idea che, attraverso la politica estera, si debba vincolare il Paese alle altre democrazie occidentali, per risolvere insieme i problemi della modernità, attraverso la creazione di un ordine internazionale aperto, basato su regole non rigide e orientato allo sviluppo e al progresso. Nonostante le differenze tra i partiti e le coalizioni di governo, nessuno ha mai posto in dubbio questo orientamento nazionale. Tuttavia, anche per l’Italia si pone, oggi, la questione di quali siano le basi geopolitiche e intellettuali su cui far leva per contribuire a rendere sicuro il mondo, per la (sua) democrazia.
La prima questione geopolitica da considerare è che, come tra le due guerre mondiali, si assiste oggi a una crisi dell’internazionalismo liberale nelle democrazie consolidate. La seconda questione concerne la rivalità sino-statunitense in Asia orientale. La decisione del governo Meloni di non rinnovare il memorandum d’intesa sulla Nuova Via della Seta, insieme all’avvicinamento strategico-militare a Gran Bretagna e Giappone in Asia, oltre alla recente ‘riscoperta dell’India’, segnalano che l’Italia intende svolgere un ruolo proattivo nel Free and Open Indo Pacific, la visione strategica nippo-statunitense che mira a controbilanciare l’influenza cinese nella macroregione rilanciando i principi cardine dell’ordine internazionale liberale. Il progressivo allontanamento da Pechino e il crescente interesse a partecipare a progetti ‘alternativi’ come il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC) costituisce una volontà ‘innovativa’ per l’Italia, impegnata a piantare la bandiera del liberalismo nell’Indo-Pacifico. In direzione diversa appare orientarsi il recente lancio del Piano Mattei per l’Africa, il quale sembra un modo più prudente per affrontare quegli attori del Sud globale che, pur contestando l’attuale ordine internazionale – percepito come discriminatorio nei loro confronti – non hanno una idea comune sull’alternativa da proporre. Oltre a Cina e Russia – che pur avendo una visione affine di ordine internazionale si attestano come partner necessari e non come veri ‘alleati’ – troviamo nella categoria del Sud globale l’Unione Africana. Il Piano Mattei per l’Africa è stato molto criticato per essere una scatola vuota, ma è proprio questa indeterminatezza, e non il tentativo di condizionare l’Africa per portarla dalla nostra parte, a rappresentare un’utile premessa per attenuare il confronto Nord-Sud – la terza grande questione geopolitica – attraverso l’attivazione di una cooperazione paritaria Italia-Unione Africana.
Mentre le basi geopolitiche su cui ‘piantar bandiere di libertà’ devono essere valutate con prudenza e realismo, quelle intellettuali dovrebbero far comprendere meglio l’importanza delle promesse non mantenute dall’internazionalismo liberale. Questo è forse il principale problema che si lega alla prima questione geopolitica. Siamo arrivati al punto che a Davos, sede invernale del World Economic Forum, è stato presentato un sondaggio da cui emerge che il 58% di un campione di super ricchi è a favore di una tassa del 2% sui patrimoni superiori a 10 milioni di dollari e il 54% ritiene che la ricchezza estrema sia una minaccia per la democrazia.
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