Non possiamo sapere se un giorno il primo trentennio del XXI secolo sarà ricordato come l’Età dei Grandi Accordi. Una prima volta – a mia memoria – abbiamo sentito parlare di un miracoloso deal da Donald Trump, nel gennaio del 2017, quando questi emanò un ordine esecutivo per il ritiro degli USA dal Partenariato Trans-Pacifico e ridiscusse il trattato NAFTA. Trump immaginava che gli USA avrebbero avviato una serie di trattative bilaterali separate, con tutti i paesi già inclusi in quei regimi internazionali, per giungere a una serie di one-to-one deals. Qualche anno dopo, nel 2019, Boris Johnson, promette di risolvere i problemi generati dalla Brexit, con un trade deal, che non verrà in definitiva da lui mai raggiunto e che di fatto riporterà lo stato delle relazioni UK-UE alla situazione già negoziata qualche tempo prima da Theresa May.
Perché i leader contemporanei della destra anglosassone sono così attratti dal miraggio del Big Deal risolutore? In secondo luogo, i conflitti sono sempre negoziabili e risolvibili con un accordo transattivo tra le parti coinvolte?
Senza spingersi nell’inquietante mondo, anticipato decine di anni fa da Anthony Burgess nel romanzo 1985, dove si descriveva la Gran Bretagna dominata dalle potenze petrolifere arabe e dai petrodollari, nella quale si perseguivano solo scopi di lucro e le humanities erano bandite dai percorsi formativi esclusivamente centrati sulle discipline STEM, non si può negare che le potenze atlantiche (USA e GB) abbiano spinto lo sviluppo capitalistico e finanziario a limiti prima sconosciuti.
Ma il punto è un altro. In virtù dei loro meccanismi politici e sociali, queste potenze sono state capaci per un secolo e forse più di assorbire al loro interno (e si badi: non ho scritto integrare o includere) genti le più diverse tra loro per etnia, cultura, religione, costumi, lingua. Questa capacità di assorbimento – ora entrata comunque in crisi – penso si sia basata fondamentalmente su opportunità di avanzamento sociale ed economico offerte a chi entrava. In altre parole, le potenze atlantiche fondano le relazioni sociali al loro interno su strutture di mercato più che di comunità, che si manifestano in modo minimo quando ai ‘diversi’ viene richiesto di parlare inglese (almeno in pubblico) e di omaggiare le istituzioni politiche (civic culture). Non una grande richiesta presentata a questi ‘alieni’, che per il resto sono lasciati relativamente liberi di tenere le condotte e seguire i costumi che più aggradano loro, giacché – come scriveva John Locke – «la cura delle anime non è affidata al magistrato civile e non può riguardare il magistrato civile». Le relazioni di mercato consentono quasi sempre un trade-off, cioè uno scambio e quindi il raggiungimento di un deal, perché non sono mai in gioco elementi identitari di fondo: «Tu resti tu ed io resto io, non ti chiedo di darmi la tua persona, ma la tua merce al giusto prezzo».
L’incomprensione dell’America, particolarmente oggi sotto la guida di Trump, del conflitto Russo-Ucraino o di quello Arabo-Israeliano, dipende da un paradigma dei rapporti politico-sociali basato sugli schemi del mercato e della transazione mutuamente vantaggiosa. Trasformare la Striscia di Gaza in un accogliente resort turistico, naturalmente assicurata agli attuali residenti una comoda residenza multiaccessoriata in qualche altro angolo ‘dell’Arabia’, oppure interporsi tra Ucraina e Russia sfruttando economicamente le ‘terre rare’ per generare vantaggi per tutti, possono sembrare boutade, ma sono invece soluzioni perfettamente razionali in un’ottica di mercato. Ma scusate, è meglio morire sotto i bombardamenti a Gaza City, oppure rilassarsi nel proprio giardinetto, sotto un ombrellone e con una bibita ghiacciata da qualsiasi altra parte nel mondo?
Ci imbattiamo così nel secondo quesito. Ogni conflitto ha insita in sé la sua soluzione? Si può raggiungere un risolutivo e mutuamente vantaggioso Big Deal trovando il ‘prezzo giusto’?
Usando un linguaggio un po’ formalistico – e me scuso – potremmo immaginare che nei contrasti le parti assumano inizialmente un ‘punto ideale’, inteso come un ipotetico status quo che massimizzi le proprie preferenze. Nello ‘spazio politico’, per complesse ragioni attitudinali, alcuni di questi punti sono relativamente mobili, cambiano abbastanza facilmente le loro coordinate, altri sono fissi, vengono talvolta chiamati ‘punti di valenza’, cioè tali per cui l’uno nega l’altro. Disgraziatamente, in politica – e forse ancor più quando consideriamo la politica delle relazioni tra le comunità politiche (la ‘politica internazionale’) – i punti di valenza sono più numerosi e condizionanti dei punti ideali. Per esempio, nel conflitto Israelo-Palestinese sono in gioco punti di valenza, non semplici punti ideali: gli Israeliani mirano ad un assetto del Medio-Oriente cancellando la presenza dei Palestinesi; questi a loro volta mirano alla cancellazione di Israele. Va da sé che sui punti di valenza non ci sono margini di contrattazione, non c’è Big Deal.
A complicare le cose, dobbiamo osservare che anche i punti ideali possono malauguratamente trasformarsi in punti di valenza. Facciamo un gioco esemplificativo. Immaginate di collocare su una linea continua due punti ideali, il mio che vorrei ottenere un aumento salariale a parità di prestazione e quello della mia controparte che non è disposto a riconoscermelo a parità di prestazione resa. Cominceremo a contrattare e su questa linea nel corso del tempo i due punti ideali si muoveranno, magari avvicinandosi un pochino per volta, in modo incrementale: io dirò di essere disposto a fare qualcosa di più; la controparte dirà che è disposta a darmi qualcosa di più. Ebbene, su questa ipotetica linea ci sarà un punto x (chiamiamolo ‘punto di non negoziazione’ o in modo immaginifico ‘punto di rimbalzo’) verso il quale tenderanno le due parti ma che nessuna delle due raggiungerà o raggiunto il quale la posizione ideale si sarà trasformata in posizione di valenza: «Da questa posizione non mi smuovo».
La morale è molto semplice. In politica, spesso i conflitti per loro natura non sono riconducibili entro una cornice di contrattazione di mercato, oppure quando inizialmente lo sono, possono improvvisamente trasformarsi, in questioni irrinunciabili e innegoziabili.

Dino Cofrancesco dice
Un articolo davvero magistrale scritto da uno scienziato politico lontanissimo dalle retoriche atlantiste, europeiste, globaliste.”Le relazioni di mercato consentono quasi sempre un trade-off, cioè uno scambio e quindi il raggiungimento di un deal, perché non sono mai in gioco elementi identitari di fondo: «Tu resti tu ed io resto io, non ti chiedo di darmi la tua persona, ma la tua merce al giusto prezzo”. Meglio non si poteva dire.